Non si può più aspettare.
Lo dimostra la fascia di fuoco che assedia l’emisfero nord con roghi spesso indomabili.
Per difendere il clima che ci permette di sopravvivere non basta una spruzzatina di rinnovabili.
L’epoca dei ritocchi estetici a piani energetici immutabili è finita.
E il passaggio dai fossili all’energia che si rinnova ogni giorno con il sorgere del sole richiede un salto tecnologico che va oltre il settore energetico.
Muove settori strategici:
dalla chimica avanzata ai materiali di frontiera, dall’ingegneria di sistema all’informatica.
Si tratta di passare da un modello elettrico fortemente accentrato, chiuso come una rocca, gerarchico, a un sistema aperto a milioni di flussi energetici che viaggiano in tutte le direzioni e richiedono robuste iniezioni di intelligenza informatica sia per la gestione del carico elettrico che per tenere a distanza gli hacker.
È un’innovazione che cambia tutto, anche la geografia.
La corrente non viaggia più da Nord a Sud, partendo dalla concentrazione di centrali attorno al cuore industriale del Paese;
si muove prevalentemente in direzione contraria, risalendo la penisola dopo aver fatto il pieno nei luoghi dove il sole e il vento sono più abbondanti.
Il senso di marcia è chiaro.
Il problema è la velocità del cambiamento.
La volata delle rinnovabili fa crollare i prezzi, alluvioni e incendi incalzano, l’Europa prova a tenere un passo da Olimpiadi perché perdere tempo vuol dire perdere mercato.
Così il Piano nazionale energia e clima appena battezzato è già vecchio.
Chi ancora esercita la memoria (esercizio in disuso) ricorda che qualcuno, al momento della pubblicazione, nel gennaio 2020, lo aveva trovato eccessivamente audace.
Oggi è modernariato delle idee.
L’Unione europea ha alzato l’asticella:
il taglio delle emissioni serra al 2030 è stato portato dal 40 al 55% in vista della decarbonizzazione netta al 2050 (vuol dire che il residuale consumo di combustibili fossili dovrà essere compensato da tecniche di riassorbimento del carbonio come la riforestazione).
Per tenere fede agli impegni assunti (e per reggere la concorrenza di chi lo sta già facendo), l’Italia deve aumentare di 10 volte la velocità d’installazione degli impianti rinnovabili.
Mica facile quando si va a sbattere contro un sistema autorizzativo farraginoso, incerto e lentissimo.
Tanto che finora gli investitori hanno preferito scommettere sugli impianti all’estero, mentre l’Italia gode di gloria passata e sulle rinnovabili da anni è quasi ferma.
La spinta della transizione ecologica potrà rovesciare questa situazione?
“La complessità del sistema di autorizzazioni resta una questione aperta:
le aste per l’assegnazione dei progetti vanno spesso deserte proprio a causa del limitato numero di operatori autorizzati”, risponde Luca Piemonti, responsabile della pianificazione della rete elettrica nazionale gestita da Terna.
“Per raggiungere gli obiettivi europei l’Italia dovrebbe installare circa 8 gigawatt di energia rinnovabile all’anno da oggi al 2030, dieci volte più del ritmo attuale.
È indubbiamente un sforzo consistente e il mercato delle fonti rinnovabili sta rispondendo con molto interesse dando segnali di grande vitalità.
Come Terna, infatti, abbiamo ricevuto richieste di connessione per più di 105 gigawatt tra fotovoltaico ed eolico, oltre a rilevanti volumi anche di eolico off-shore”.
La cura proposta da Terna si basa sulla diffusione di sistemi per accumulare energia, su aste e contratti a lungo termine a prezzo fisso per le rinnovabili.
E anche sulla possibilità che sempre più le piccole utenze (come le famiglie e chi usa un veicolo elettrico) possano interagire con la rete elettrica offrendo energia nei momenti di picco della richiesta e facendo il pieno nei momenti di bassa richiesta:
in questo modo aiutano a stabilizzare il sistema e ottengono un ritorno economico.
Possono sembrare obiettivi molto ambiziosi.
Ma nello scenario europeo del Green Deal sono il minimo sindacale se vogliamo evitare una figuraccia che metterebbe a rischio il rilancio economico per il prossimo decennio.
È l’Europa a dire, ad esempio, che la produzione eolica dovrà volare.
Raggiungere al 2030 un incremento di 55 terawattora:
è una crescita di 34 terawattora rispetto al 2020.
Come ci si può arrivare?
Il contributo dell’off-shore rappresenta una piccola quota:
1,1 terawattora al 2030.
Una quota più significativa potrà derivare dal repowering degli impianti esistenti.
Ma la voce più importante dovrebbe venire da nuovi impianti:
quelli più difficili da realizzare.
“Per questo è necessario rimuovere gli ostacoli che frenano il processo di decarbonizzazione”, afferma il presidente dell’Anev, Simone Togni.
“Negli anni il settore eolico ha spesso dovuto intraprendere battaglie legali per poter svolgere il proprio lavoro e dare il proprio contributo alla crescita delle fonti rinnovabili e dell’economia del Paese.
E il rallentamento degli iter autorizzativi ha fatto perdere all’Italia una quota importante dei benefici ambientali, economici e occupazionali legati allo sviluppo dell’energia eolica.
Ora il Green Deal pone obiettivi chiari:
per non perdere questa opportunità storica il governo deve fare di tutto per raggiungerli. Anche perché il totale del valore aggiunto dall’eolico è pari a 3,5 miliardi di euro e il gettito fiscale a 1,1 miliardi di euro”.
Antonio Cianciullo
Resp ambiente Huffpost.
tratto da Huffpost del  2/8/21
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