La pandemia che ha colpito il pianeta provocando, ad oggi, oltre un milione e seicentomila morti ci ha sta rendendo sempre più consapevoli dei danni che vivere in un ambiente instabile e malandato potrà produrre alla nostra specie nel prossimo futuro.
È evidente, infatti, come la causa prima della pandemia sia da individuare nelle varie forme della nostra continua aggressione all’ambiente.
Numerosi studi hanno dimostrato come il diffuso degrado degli ecosistemi dovuto all’azione dell’uomo ha avuto un ruolo cruciale nell’aumento del tasso di insorgenza di zoonosi negli ultimi 40 anni.
Sars-CoV-2 non è il primo virus la cui emergenza sia stata collegata alla deforestazione:
Ebola, HIV, Nipah e Zika, per rimanere agli ultimi anni, hanno tutti origini simili e legate alla distruzione di ecosistemi vergini.
Se non metteremo, immediatamente, un freno alla distruzione di habitat naturali dovremo abituarci alla sempre più frequente comparsa di zoonosi.
Pandemia, riscaldamento globale, crisi climatica, sono fenomeni che condividono la medesima origine nella nostra infaticabile opera di distruzione della natura.
Ci si potrebbe attendere che a forza di disastri e morti alla fine anche i più refrattari siano obbligati a capire e, invece, non si percepisce alcun segno di inversione di tendenza.
L’anidride carbonica continua allegramente a crescere nell’atmosfera mentre le foreste continuano a scomparire.
In attesa di vedere se il 2021 sarà l’anno della svolta, come annunciato da molti, per intanto il 2020, nei secoli a venire sarà ricordato oltre che per la pandemia anche per un altro evento epocale che segnerà per sempre la storia della nostra specie.
Un anno che segnerà un prima e un dopo: nel 2020 il peso dei materiali prodotti dall’uomo ha superato il peso dell’intera massa dei viventi.
È una notizia sconvolgente;
qualcosa che non avrei mai immaginato potesse succedere.
E, invece è avvenuta e ad una velocità che, se fossimo una specie davvero ragionevole, se fossimo quei Sapiens che presuntuosamente pensiamo di essere, dovrebbe preoccuparci molto più di qualunque virus
Per comprendere con che celerità proceda l’azione umana, pensate che ancora agli inizi del ‘900 il peso di tutti i materiali prodotti dall’uomo nella sua storia rappresentava soltanto il 3% della biomassa (ossia del peso della vita).
Nell’ultimo secolo la massa di questi stessi materiali è raddoppiata ogni vent’anni fino ad arrivare, oggi, nel 2020, alla iperbolica cifra di 1100 miliardi di tonnellate ben superiore al peso di tutti gli esseri viventi stimato intorno ai 1000 miliardi di tonnellate.
Non è un risultato semplice da conseguire. Per ottenerlo bisogna applicarsi con disciplina ferrea.
Non basta, infatti, produrre cemento, plastica e macchinari a dismisura per superare l’attività di 4 miliardi di anni di vita.
Per farcela bisogna lavorare su due fronti diversi:
da una parte produrre inimmaginabili quantità di nuovi materiali e dall’altra applicarsi indefessamente all’eliminazione della vita già presente sulla Terra, così da ridurne il peso.
È quello che abbiamo fatto per secoli e che continuiamo a fare con infaticabile applicazioni
Oggi, sulla Terra vivono soltanto la metà degli alberi che vi si trovavano all’inizio dell’agricoltura.
In diecimila anni di attività umana abbiamo tagliato 3000 miliardi di alberi!
Erano 6000 miliardi, oggi sono la metà…
e 2000 miliardi li abbiamo tagliati negli ultimi due secoli.
Ogni giorno, domeniche e festivi inclusi, ne vengono abbattuti 15 milioni, dalle sole foreste primarie.
Si tratta di quelle foreste ancora intoccate dall’uomo di cui la gran parte dell’Europa era in pratica ricoperta ancora alla fine del XVIII secolo e di cui oggi non rimane in Europa alcuna traccia
Non si potrà dubitare d’ora in poi del fatto che l’uomo sia diventato una “forza tellurica”;
in grado di sconvolgere e trasformare per sempre la storia del nostro pianeta.
Se per decenni si è discusso se fossimo o meno entrati nell’Antropocene, oggi non vi è più nessun dubbio.
È l’uomo, più che qualunque altra causa naturale, che decide le sorti della Terra.
Come si è arrivati a tanto?
E, soprattutto, cosa possiamo fare per garantire alla nostra specie una possibilità di sopravvivenza?
Innanzitutto dovremmo capire come funziona la vita e smetterla di immaginare l’uomo come il centro della vita nella stessa maniera in cui, 500 anni fa, ritenevamo che la Terra fosse il centro dell’universo
Comprendere che la vita è una delicata rete di rapporti e che l’uomo non è il suo signore, quanto uno dei suoi molti componenti, potrebbe aiutarci.
La vita è una rete formata da tutti le specie presenti sul pianeta.
Qualunque disordine nella configurazione di questa rete può portare a risultati imprevedibili.
È per questo che l’enorme numero di specie che, a causa della nostra azione, scompaiono annualmente, va inteso come un ulteriore e grave pericolo anche per il nostro futuro.
Qualunque processo relativo alla vita, che coinvolga una cellula, un essere vivente, una società, o un intero pianeta, va visto in termini di rete, e in una rete l’aspetto determinante è la qualità delle connessioni.
L’adozione di questa prospettiva richiede che si ritorni a ragionare assennatamente in termini di comunità.
Mi auguro che nei prossimi anni, la consapevolezza della connessione sempre più stretta che esiste fra ogni singolo essere umano presente sul pianeta renda più forte e moderno il concetto di comunità.
Le comunità, ossia i nodi della rete umana, dovranno diventare quello che sono già state in altri momenti della nostra storia: il motore del nostro sviluppo.
E perché questo sia possibile è necessario capire che le comunità, qualunque sia il loro livello di aggregazione, dalla comunità umana locale, alla comunità dei viventi, sono tali e funzionano soltanto se c’è una comunità di affetti.
È un aspetto che tendiamo a sottovalutare.
Immaginiamo il nostro avvenire come un tempo dominato da tecnologie sempre più raffinate, credo, al contrario, che sia soltanto in qualcosa di necessario e antico come gli affetti – l’amore per i nostri simili viventi – che risieda la nostra unica possibilità di futuro.”
Stefano Mancuso
pubbl.su Repubblica 2/1/2021