Di Giacomo Talignani.
Là dove scorre il fiume gli ultimi giganti lottano per la vita.
Li chiamano “mostri”, ma forse visto il tasso con cui stanno scomparendo fra inquinamento e cambiamenti climatici, i mostri siamo noi.
Se ci sono animali simbolo dell’estrema biodiversità del nostro Pianeta che si stanno estinguendo a un ritmo elevatissimo questi sono i giganti dei fiumi e dei laghi:
gli enormi pesci gatti, la pastinaca, lo storione, l’arapaima dell’Amazzonia e tanti altri. Pesci capaci di pesare quasi due volte un gorilla.
Enormi esemplari, come il pesce gatto gigante che fu pescato nel Mekong nel 2005 di 293 chilogrammi, che sono il sogno proibito dei pescatori alla ricerca di sfide impossibili.
Di questi re e regine della megafauna ittica d’acqua dolce, nel mondo, ne restano però sempre meno.
L’ultimo a scomparire, il primo ad estinguersi nel 2020, è il pesce spada (o spatola) cinese che dopo esser stato in circolazione almeno 200 milioni di anni nei fiumi della Cina si è estinto, secondo quando raccontato da un team di scienziati sulla rivista Science of the Total Environment.
Al pesce spatola non è andata bene ma, secondo gli esperti, molte altre specie di enormi pesci d’acqua dolce nel mondo potrebbero ancora essere salvate. Di queste creature, a volte lunghe quanto un’utilitaria, esistono circa 200 specie, per ora poco studiate e conosciute al pubblico.
Il 94% dei grandi pesci in declino
Mentre in Italia si possono ancora osservare i grandi pesci siluro nel Po ed affluenti, in tutto il mondo – dal Brasile al Vietnam – la maggior parte dei colossi che abitano fiumi e laghi sta scomparendo velocemente: tra il 1970 e il 2012, racconta uno degli ultimi studi sull’argomento pubblicato su Global Change Biology, il 94% dei grandi pesci è risultato in via di declino.
Le cause sono multiple:
pesca eccessiva,
distruzione di habitat,
inquinamento e innalzamento delle temperature hanno portato a una diminuzione delle popolazioni di oltre il 94% di 126 specie di pesci d’acqua dolce (di almeno 30 kg) in 72 Paesi, così come dell’88% della megafauna fluvale e lacustre.
Accade nei fiumi dell’Amazzonia, nel Gange, nel Mekong dove imbarcazioni e pescatori, centrali idroelettriche e dighe, discariche e inquinati rubano “spazio” ai grandi pesci che non riescono ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti e si riproducono sempre meno.
Zeb Hogan, ecologista dell’Università del Nevada che studia la megafauna, non è affatto sorpreso dai ritmi con cui questi animali si stanno estinguendo
. “Queste specie – ha raccontato – erano rare quando ho iniziato a lavorarci vent’anni fa: oggi alcune non esistono più, e altre che erano diffuse stanno diventando rare”.
Per il World Wildlife Fund le popolazioni di animali d’acqua dolce in generale stanno diminuendo a tassi più del doppio di quelli osservati tra gli animali terrestri o marini e servirebbe una maggiore protezione, da aree protette a divieti di pesca e costruzioni, per poterle preservare.
Le iniziative mirate per la conservazione, raccontano gli studiosi, funzionano e sono un segnale di speranza positivo in tempi bui di crisi climatica.
Lo insegnano i villaggi di pescatori del Brasile dove l’arapaima, pesce gigantesco del bacino dell’Amazzonia, è tornato a ripopolarsi.
Oppure nel Wisconsin, dove le comunità preservano lo storione.
Secondo gli scienziati che analizzano il declino di questi animali, con leggi appropriate e l’abbandono di costruzioni come dighe o centrali idroelettriche, magari sfruttando l’uso di nuove energie rinnovabili per sostituirle, si farebbe già molto per aiutare i colossi dei fiumi.
Serve però uno sforzo globale per salvare queste straordinarie creature, “pesci che rendono la nostra esperienza sulla Terra ancor più ricca e straordinaria”.
Perché, si chiede sconsolato e speranzoso il dottor Hogan:
“Davvero vogliamo vivere su un Pianeta in qui non potremmo più vedere o convivere con questi meravigliosi animali?”.
Tratto da Repubblica del 20 gennaio 2020