Uno dei grandi problemi che contribuisce in maniera esponenziale a non riuscire, ad oggi, ad affrontare il problema dell’inquinamento del pianeta in maniera rapida come meriterebbe, è la costante deresponsabilizzazione che mediamente le persone comuni fanno, in relazione ai propri comportamenti.
In poche parole la colpa dell’inquinamento del pianeta è sempre degli Stati o delle grandi multinazionali e comunque di altri che non siamo Noi.
È chiaro che questi “attori” hanno spessissimo responsabilità enormi, ma quello che non vogliamo proprio accettare è che sono i nostri comportamenti, quello che mangiamo, con cui ci vestiamo o come viaggiamo che rendono possibili quei dati di inquinamento.
Eppure oggi 7 milioni di persone nel mondo secondo l’OMS muoiono già per malattie collegate all’inquinamento.
Per esempio vogliamo soffermarci sui nostri vestiti?
Vi chiedo:
Come è possibile che un indumento costi meno di un panino?
Ve lo siete mai chiesto?
Come può un prodotto che deve essere seminato, cresciuto, raccolto, setacciato, filato, tagliato e cucito, lavorato, stampato, etichettato, impacchettato e trasportato costare pochi euro?
È impossibile.
Una “leggerezza d’acquisto” che oggi come oggi non è più sostenibile.
La Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite ha recentemente discusso in una conferenza in Svizzera l’impatto dell’industria della moda sull’ambiente.
-La fotografia è quella di un martello che batte su un’incudine arrugginita:
sono da attribuire a questo settore il 20% dello spreco globale di acqua e il 10% delle emissioni di anidride carbonica nonché la produzione di più gas serra rispetto a tutti gli spostamenti navali e aerei del mondo.
-Allo stesso tempo le coltivazioni di cotone sono responsabili per il 24% dell’uso di insetticidi e per l’11% dell’uso di pesticidi facendo del settore tessile uno dei più inquinanti.
-Ma il vero punto è che quella maglietta comprata l’estate scorsa (che quest’anno non vi passerebbe mai per la testa di indossare e che finirà con buona probabilità nel bidone dell’indifferenziata) è in ottima compagnia:
-sempre secondo le Nazioni Unite l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e solo l’1% viene riciclato.
-Un dato che diventa ancora più significativo se si considera che rispetto al 2000 il consumatore medio acquista il 60% di abiti in più.
La maggior parte degli indumenti più comuni sono oggi realizzati in sintetico, soprattutto poliestere, che è un composto della plastica (e non si degrada dopo lo smaltimento):
a ogni lavaggio questi prodotti rilasciano una grande quantità di minuscole fibre singolarmente invisibili e praticamente indistruttibili che prima o poi finiscono in mare.
-Dietro questo ritardo, tuttavia, potrebbe nascondersi la pesante ombra delle ecomafie.
-Molto spesso l’invenduto viene bruciato, provocando emissioni di anidride carbonica per 1,35 tonnellate per megawattora, più della combustione del carbone e del gas naturale.
-In media, nel suo breve ciclo di vita, un indumento della fast fashion produce emissioni inquinanti in ogni fase della lavorazione:
quella di produzione delle fibre causa il 18% delle emissioni di gas totali prodotte dall’industria manifatturiera, quella dei filati il 16% e quella di utilizzo da parte del consumatore (lavaggio, asciugatura e smaltimento) il 39%.
-Le fibre sintetiche, come il nylon, l’elastan e il poliestere hanno gli effetti peggiori sull’ambiente:
in quanto materiali plastici, derivano dal petrolio e per la loro produzione il settore dell’abbigliamento utilizza 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili.
-Non va meglio con quelle artificiali:
la viscosa, molto comune perché dà un effetto simile alla seta ma a prezzi decisamente più bassi, viene ricavata dalla cellulosa, e il suo processo produttivo è altamente inquinante.
-Anche le fibre naturali, che potrebbero sembrare preferibili, hanno conseguenze da non sottovalutare.
-La produzione della lana causa elevate emissioni di metano, mentre rispetto alle fibre sintetiche diminuiscono nettamente le emissioni di anidride prodotte in fase di utilizzo, presumibilmente perché un indumento di lana è utilizzato più volte rispetto a equivalenti in altri materiali e spesso è lavato a mano.
-La fibra naturale più utilizzata, il cotone, richiede circa 11.000 litri d’acqua per produrre un chilo di materiale, 2700 litri in media per una normale t-shirt.
Non è nemmeno esente da rischi per la salute, sia per chi lo lavora sia per il terreno, in quanto viene trattato con fertilizzanti e pesticidi invasivi o altre sostanze poco sicure.
-Il cotone biologico a prima vista sembrerebbe un’alternativa sostenibile, ma rappresenta solo l’1% della produzione mondiale.
-Benetton, Zara, C&A, Diesel; e ancora Esprit, Gap, Armani, H&M, Calvin Klein:
sono solo alcuni dei 20 marchi presi in esame.
La maggior parte dei 141 articoli analizzati, venduti in 29 nazioni, ha una cosa in comune: la tossicità.
ok questi i punti critici-
I dettagli nell’articolo allegato.
Articolo pubblicato il 19/09/19 su @informareonline.