questo articolo trovo sia molto bello per il ragionamento che propone.
Vi chiedo di leggerlo con attenzione …sopratutto la sua conclusione.
RB

’Elvis Presley si fece vaccinare contro la poliomielite il 28 ottobre 1956.

 

 

Conosciamo la data precisa poiché invece di recarsi in un ambulatorio medico, il cantante venne vaccinato in uno studio televisivo.

 

Ad assisterlo, oltre al medico e alle infermiere, c’era una schiera di fotografi.

 

La foto di Elvis sorridente che porge coraggiosamente il braccio all’ago campeggiava il giorno successivo sulle pagine dei principali giornali americani.

 

  Qualche mese prima Elvis era stato chiamato per la prima volta “il re del rock’n’roll” e da lì a poco sarebbe uscito nelle sale cinematografiche “Love Me Tender”, nel quale recitava il ruolo di protagonista e cantava uno dei suoi pezzi di maggior successo.

 

I suoi movimenti scenici turbavano i conservatori e mandavano in visibilio la gioventù americana.ù

  Era proprio quello su cui facevano conto gli attivisti della National Foundation for Infantile Paralysis (Fondazione Nazionale per la Paralisi Infantile), dopo aver convinto il cantante a vaccinarsi pubblicamente.

 

Il vaccino per la polio scoperto da Jonas Salk era stato testato precedentemente da due milioni di americani.

 

Nell’estate del 1955 venne ufficialmente riconosciuto come sicuro. Ciò nonostante un anno e mezzo più tardi la percentuale di vaccinati tra adolescenti e adulti restava ancora molto bassa: molti americani erano convinti che quella malattia minacciasse solo i bambini.  

 

La strategia si rivelò efficace: dopo che la pubblicazione della foto di Elvis il numero dei vaccinati negli Stati Uniti cominciò a crescere a dismisura.

 

Nel corso dei successivi quattro anni il numero dei contagi si ridusse di quasi il 90%.

 

Elvis Presley aveva salvato l’America dalla poliomielite.  

 

Salva il pianeta, per la miseria!

 

 

 Peccato che questa non sia la verità, almeno stando a quanto scrive lo scrittore americano Jonathan S. Foer.

 

Nel saggio “Possiamo salvare il clima prima di cena” rifacendosi allo storico Stephen Mawdsley, sostiene che per quanto il coinvolgimento di Elvis Presley nella causa non fu privo di peso, la vera svolta fu possibile grazie alle centinaia di attivisti adolescenti che, andando di casa in casa, seppero convincere gli americani della necessità di vaccinarsi.

 

Nel 2013 era uscito il bestseller di Foer

 

“Niente importa. Perché mangiamo gli animali?”.

 

Proprio come in quel libro Foer rievoca la storia della propria famiglia e le sue esperienze personali.

 

Il racconto sulla nonna nata in Polonia – l’unica della famiglia a decidersi a lasciare il villaggio natale prima dell’arrivo dei nazisti e l’unica a essersi salvata dalla Shoah – si intreccia con i risultati delle ricerche scientifiche, con la storia dei movimenti americani per i diritti civili e addirittura con un antico testo egizio.

 

Il tutto per smuovere le coscienze e spingerci a “prendere la decisione collettiva” di rinunciare ai prodotti di provenienza animale oggi stesso, prima di cena.

 

  Non si tratta delle sofferenze inflitte agli animali, ma di calcoli e dati concreti. Secondo diverse stime l’allevamento industriale degli animali è responsabile da un minimo del 14,5%, a un massimo del 50% delle emissioni dei gas serra.

 

Foer pone il problema in termini molto chiari:

 

il pianeta si sta surriscaldando e se non cambiamo subito dieta siamo destinati a soccombere.  

 

Gli scienziati e le organizzazioni internazionali, fra cui l’Onu, da almeno cinque anni mettono in guardia che l’alimentazione basata sugli animali ci sta portando verso la catastrofe.

 

Gli animali da allevamento emettono nell’atmosfera enormi quantità di metano; i disboscamenti per fare spazio ai pascoli aumentano i livelli di biossido di carbonio;

 

le coltivazioni di piante da foraggio comportano un enorme dispendio di risorse idriche comportando una seria minaccia per la biodiversità. Il problema centrale posto da Foer non è dunque

“cosa fare per salvare il mondo?”,

ma

 

“come convincere le persone perché inizino a salvarlo?”.  

Il racconto di Elvis Presley e della polio gli è necessario per dimostrare quanto possa risultare efficace un’azione collettiva, di solito non sufficientemente apprezzata o non tanto quanto il ben più spettacolare coinvolgimento delle celebrità in una causa comune.

Ma è necessario anche a me per spiegare perché da qualche tempo mi sento così male.

 

  Le regole del gioco cambiano durante la partita

 

Sarà almeno un decennio che provo a salvare il mondo. Sciacquo tutti i vasetti di yogurt prima di gettarli nell’immondizia.

 

Divido gli imballaggi separando la plastica dalla carta.

Ho smesso di consumare carne, limito latticini e uova al minimo indispensabile.

Ho imparato a sostituire l’uovo con avocado, banana schiacciata e decotto di semi di lino.

Ho smesso di comperare vestiti nuovi e colleziono le borse di cotone che distribuiscono durante i festival e nelle librerie.

So come preparare la pasta di fagioli, il dessert con l’acqua in cui si mettono ammollo i ceci e la torta con gli anacardi.

Non possiedo un’automobile ma in compenso ho un cassetto pieno di buste da lettera imbottite con le bolle d’aria che spero un giorno di poter riutilizzare, per quanto non spedisca mai niente a nessuno.

  Mi sento stanca sempre più spesso.

Non di quello che faccio.

Sono stanca per l’ansia e la continua incertezza se sto facendo le cose adeguatamente.

  Lo scrittore Stanislaw Lubienski (che ha recentemente pubblicato un volume di saggi intitolato “Il libro sui rifiuti”), in un testo pubblicato qualche tempo fa si è diagnosticato una “nevrosi ecologica”.

So perfettamente come si sente.

Quando in qualche bar o locale il barman mi infila una cannuccia di plastica nel bicchiere prima che faccia in tempo a protestare, con gli occhi per così dire “dell’anima” vedo una tartaruga morire soffocata.

 

Quando premo il pulsante sbagliato dello sciacquone e invece di consumare tre litri d’acqua ne sperpero sei, mi si apre davanti agli occhi l’immagine dei letti essiccati dei fiumi della Masovia.

 

Quando mi dimentico di prendere da casa la borsa di stoffa e sono costretta a infilare i cavolini di Bruxelles nella busta di platica sento il rombo di un ghiacciaio che si sgretola.

 

E quando estraggo dal cassetto del frigorifero una carota vizza e ammuffita, sento risuonare nelle mie orecchie le grida di tutte le generazioni future che soffriranno la fame.

 

 

Nei miei incubi più atroci volo sopra l’isola di plastica del Pacifico e proprio al suo centro riconosco la ciabatta di plastica portatami via da un’onda cinque anni fa. 

 

 

Vivere in maniera equilibrata e nel rispetto dell’ambiente è un po’ come cercare di vincere a un gioco del quale scopri le regole solo durante lo svolgimento, mentre la metà di loro cambierà ancora prima della fine della ripresa.

 

Questo perché le scelte apparentemente etiche si rivelano spesso un tentativo di curare la peste con il colera.

 

Sciacquare le confezioni destinate al riciclaggio non è stato nient’altro che uno spreco inutile d’acqua.

 

E l’avocado?

 

L’aumento della richiesta di questo prodotto negli ultimi anni ha fatto gola ai cartelli del narcotraffico che hanno cominciato a riscuotere il pizzo dagli agricoltori.

 

Anche là dove non giungono le mani dei criminali le coltivazioni intensive portano alla deforestazione, allo spreco di enormi risorse idriche e allo sconvolgimento degli equilibri degli ecosistemi locali.

 

Per non parlare del carbon footprint necessario a trasportare “l’oro verde” in Polonia.  

 

Qualcosa di simile accade con altri alimenti tanto amati dai vegani.

 

Prendiamo gli anacardi, con i quali vengono prodotti dolci e formaggi vegani;

 

a causa della crescente richiesta da parte degli ecoconsumatori vengono raccolti sempre più spesso nell’assenza delle basilari forme di protezione;

 

e pochi sanno che è molto facile venire bruciati o danneggiati dalle tossine rilasciate da questa pianta.

 

Gli anacardi vengono coltivati in tre continenti, ma non in Europa dove vengono trasportati. La richiesta di latte di mandorla – popolare alternativa al latte bovino – aggrava la siccità delle distese californiane e australiane, già di per sé provate dai frequenti incendi;

 

senza contare che il passaggio dell’agricoltura locale alle monocolture ha effetti devastanti sulla popolazione delle api.

  La borsa di stoffa che resta dopo il festival letterario è un gadget magnifico, sempre se si riesce a usarla almeno 130 volte;

soltanto allora infatti il costo che l’ambiente soffre per la sua produzione eguaglia quello di una busta di plastica monouso.

Sempre che non sia stata cucita con cotone organico, perché in questo caso questa uguaglianza sarebbe raggiunta solo in cinquant’anni.  

 

Quando lavoravo in un bar vegano di Melbourne e davo ai miei clienti le cannucce di carta prodotte negli Stati Uniti non mi domandavo come avessero attraversato l’oceano Pacifico. In ogni caso ancora una volta le alternative non sono molte:

+a meno che non vengano trasportate dalle grate tartarughe sui propri gusci, ognuna di queste cannucce costituisce un piccolo crimine contro l’ambiente.  

 

Rilevo in un numero crescente di amici e conoscenti lo stesso permanente senso di colpa per la distruzione sistematica del nostro pianeta.

 

Ma anche negli sconosciuti che nei forum su Internet si domandano se sia possibile annaffiare le piante domestiche con l’acqua della pastasciutta, che sperimentano pannolini multiuso e coppe mestruali o verificano se finalmente anche a Varsavia si possano comprare la farina o il detersivo in polvere sfusi.

 

Quelli che si domandano che cosa acceleri di più la catastrofe climatica, se leggere i libri cartacei, che bisogna stampare, rilegare e trasportare tra stamperie, magazzini e librerie oppure un e-book sul lettore digitale che consuma elettricità, contiene metalli rari ed è destinato a diventare presto o tardi un rifiuto elettronico.

 

  Fate un respiro profondo, cari compagni di nevroSI

Non è colpa vostra.

 

Semplicemente è difficile salvare il mondo.    

 

Salvare il pianeta invece che salvare l’anima

 

 Molto più difficile di quanto credano tutti gli editori o autori che giurano che fermare la catastrofe ecologica sia qualcosa alla nostra portata;

 

che basti preparare una compostiera domestica, adottare un’ape e fare un tappetino con una vecchia maglietta, oppure abbandonare la macchina per la biciletta, la vasca da bagno per la doccia, la bistecca per le polpette di cavolfiore.

 

 Nel maggio dello scorso anno Areta Szpura, proprietaria di un marchio di abbigliamento convertitasi al movimento less waste, insegnava “Come salvare il mondo” (editore W.A.B.); a gennaio la casa editrice Prószynski i S-ka aveva in serbo “12 modi ingegnosi per salvare il nostro pianeta”, pratici consigli degli esperti del WWF illustrati dal popolare disegnatore Andrzej Milewski; lo scorso mese gli ha dato man forte la blogger culinaria Ewa Lugowska con “Una scodella di vigore: manuale di cucina per cambiare il mondo” (editore Znak).

 

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi ad libitum:

soltanto nell’offerta delle librerie Empik è possibile trovare una quindicina di prontuari e manuali dedicati alla vita zero waste, il libro di giochi “Salviamo la terra” o il volume illustrato sull’energia rinnovabile destinato a bimbi di età prescolare.

 

  La salvezza del pianeta inizia a contendersi i territori della salvezza dell’anima immortale. La cosa non stupisce affatto:

se i teologi cristiani sottolineavano la necessità di rinunce e sacrifici, gli ecoapostoli contemporanei – celebrità, blogger di cucina e attivisti – ci convincono che salvare il pianeta sia qualcosa di leggero, facile e piacevole.

Ridurre il carbon footprint non solo farà di te una persona migliore, ma anche più magra, ricca e addirittura felice.  

 

In confronto a loro Foer è un fondamentalista: nel suo libro non promette affatto che il cambio delle nostre abitudini alimentari sarà una passeggiata: al contrario, ammette di sentire nostalgia per la carne e di essersi addirittura spinto, durante una delle tappe per la presentazione del libro

“Niente importa. Perché mangiamo gli animali?

a consumare furtivamente un tradizionale hamburger nel segreto di una stanza di albergo.

Non nasconde affatto che con ogni probabilità non sarà sufficiente rinunciare al consumo e all’utilizzo di prodotti di derivazione animale per fermare del tutto lo scioglimento dei ghiacciai, il prosciugamento dei fiumi, la crescita delle temperature.

Ma ciò nonostante, argomenta lo scrittore, dobbiamo agire adesso e invece di fantasticare su improbabili traslochi su altri pianeti impiegare la nostra fantasia per salvare quello su cui viviamo.  

 

  Difficile dargli torto.

 

Ma anche difficile non notare che la fantasia dello stesso Foer in certi ambiti risulta sorprendentemente insufficiente.  

 

  Delegare il senso di colpa

 

 

Torniamo ancora una volta alla storia di Elvis e della polio.

 

Provate a immaginare un istante che il vostro paese sia flagellato da qualche anno da una malattia contagiosa.

 

La maggior parte della gente ne è affetta in modo lieve o addirittura asintomatico, ma in alcune persone il virus aggredisce il cervello e il midollo spinale conducendo a disabilità permanente e addirittura alla morte.

 

Gli scienziati un giorno trovano finalmente un vaccino efficace e sicuro.

 

 Potrebbe salvare dalla paralisi o dalla morte decine di migliaia di persone ogni anno, se solo la gente vi facesse ricorso; ma la gente non è affatto favorevole a farsi vaccinare.

Come convincerla?

 

Una soluzione potrebbe essere il coinvolgimento delle celebrità per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema.

 

Oppure si potrebbero cercare dei volontari, gente disposta a sacrificare il proprio tempo per andare da una porta all’altra a convincere personalmente dell’utilità della vaccinazione. Oppure si potrebbe stabilire l’obbligatorietà del vaccino contro la poliomielite.  

 

Solo che per farlo si renderebbe necessario coinvolgere lo stato che, nell’orizzonte di Foer, nel migliore dei casi si intravede appena sullo sfondo.

 

Foer sembra rilevare la necessità di regolamenti imposti dall’alto, ma in pratica tratta l’argomento solo superficialmente.

 

Quando affronta il problema della distruzione del pianeta causata dal nostro sistema economico – un centinaio di società mondiali è responsabile di oltre il 70% delle emissioni di gas serra! – si limita a concludere che “le società producono quello che noi compriamo.

 

Gli agricoltori coltivano quello che noi mangiamo”.

 

Se rileva la necessità di cambiamenti a livello legislativo, di sussidi e di una maggiore educazione, lo fa principalmente per ritornare con tranquilla coscienza alla questione delle scelte etiche (o no) del consumatore.

 

E quando suggerisce che per salvare il pianeta potrebbe essere necessaria una rivoluzione politica osserva subito che “le rivoluzioni collettive sono fatte dagli individui, guidate da individui e rafforzate da migliaia di rivoluzioni individuali”.

 

  “Sono le nostre emozioni – e la mancanza di emozioni – a distruggere il pianeta” dichiara Foer.

 

Io credo senz’altro nella forza delle emozioni, ma se vogliamo affrontare la questione concretamente è innegabile che a distruggere il pianeta siano: le tonnellate di carbone bruciate nelle centrali termoelettriche, l’aumento dissennato dei trasporti, l’abbattimento di boschi e foreste per fare spazio alle colture e il turismo low cost massificato.

 

Tutte queste cose sono strettamente connesse con le nostre scelte di consumatori e vanno sempre rapportate alla politica locale e internazionale.    

 

Molti autori che gridano alla catastrofe climatica e ambientale sembrano soffrire della stessa sindrome.

 

Secondo la loro narrazione il peso della responsabilità è ugualmente ripartito su ogni singolo consumatore il quale dovrebbe industriarsi per fermare l’apocalisse.

 

L’atteggiamento di chi si aspetta che qualcun altro dovrebbe risolvere il problema dei cambiamenti climatici è sostanzialmente giudicato come una manifestazione di pigrizia e immaturità.  

 

Comprendo la logica alla base di questo modo di pensare: se la gente non si sente personalmente responsabile non agisce né si mobilita.

 

 

In un mondo in cui ancora moltissime persone sminuiscono o addirittura mettono in dubbio l’influenza dell’uomo sui cambiamenti climatici, inclini a scaricare il peso decisionale su entità astratte – Stati, organizzazioni internazionali o fondazioni – le cose possono finire molto male.  

 

Ma l’opzione opposta, quella della responsabilità individuale, davvero può portare a risultati migliori?

 

Essere un eroe va bene finché si riesce ad agire correttamente.

 

Ma il problema è riuscire a farlo ventiquattro ore al giorno.

 

In parte perché questo richiede conoscenze addirittura specialistiche oppure sottoporre ogni nostra scelta o decisione al vaglio di approfondite ricerche; in parte perché siamo solo esseri umani:

 

ci sbagliamo, ci distraiamo, preferiamo la via più facile e abbiamo le nostre debolezze;

 

per esempio farci un bagno caldo ogni tanto o mangiarci un hamburger in una stanza di albergo.  

 

Tutti sappiamo cosa attende gli eroi quanto abbandonano la retta via:

 

nel migliore dei casi la trascuratezza, l’apatia e l’esaurimento nervoso, nel peggiore invece rischiano di passare al lato oscuro della forza.

 

L’altro aspetto del convincimento che si possa salvare il mondo con una borsa di cotone è il riconoscimento che comprando i pomodori avvolti nella plastica si condanni il pianeta alla rovina.

 

E la consapevolezza che molte persone quotidianamente lo fa ci riempie di frustrazione, rabbia e disperazione.  

 

La tua bicicletta non compenserà la mancanza di collegamenti ferroviari in provincia

 

Non vorrei essere fraintesa.

 

Non sto criticando l’appello di Foer, così come non metto in dubbio la bontà delle intenzioni di tutti quei manuali che invitano a una condotta più sensibile ai problemi ambientali.

 

Sarò molto felice se ci saranno più persone disposte a consumare alimenti e piatti vegani.

 

Non dubito circa l’utilità della tabella con le verdure stagionali, dei consigli su come consumare meno plastica, delle ricette sulle 101 pietanze e tutto il resto.

 

L’ape che ho adottato qualche anno fa probabilmente non vive più, ma spero ugualmente che le sue compagne godano di buona salute.

 

  È bene sentirsi responsabili per il destino del pianeta: rinunciamo alla plastica, risparmiamo l’acqua, copriamo delle biciclette.

Capita che le decisioni individuali abbiamo una ricaduta fondamentale su tutta la collettività, lo si sta venendo con maggiore chiarezza oggi, ai tempi della pandemia.

 

Ma dobbiamo ugualmente essere consapevoli che molti dei problemi con cui ci misuriamo non possono essere risolti a livello individuale, neanche se ad agire insieme sono moltissime persone.

 

 

Annaffiare il giardinetto vicino a casa con l’acqua con cui abbiamo sciacquato la verdura non basterà a bilanciare gli effetti dell’eccessiva cementificazione delle nostre città e neppure e regolare la portata idrica dei fiumi

. E promuovere l’acquisto delle auto elettriche non servirà a niente se continueremo a produrre l’energia dal carbone.

 

Quello che risparmieranno in termini di carbon footprint gli abitanti delle grandi città polacche, disposti a rinunciare all’auto per la bicicletta, verrò consumato dagli abitanti delle centinaia di località di provincia dove non arrivano né treni né autobus.

 

  Nel sistema dell’economia globalizzata conseguire alcuni giusti obiettivi non sarà il punto di arrivo di un percorso, ma semmai il punto di partenza.

 

Anche se il mondo decidesse di passare al veganismo, se si passasse dall’allevamento del bestiame alla coltivazione di nuovi prodotti ad uso alimentare, gran parte dell’agricoltura dovrà essere rivoluzionata.

 

Risulterà necessario il sapere degli esperti, ci vorranno analisi, ricerche, sussidi statali, norme e controlli.

 

Perché a ben guardare, come ben dimostra il caso dell’avocado, “vegetale” non sempre significa “buono per l’ambiente”.

 

Il mondo non potrà essere salvato se il cambiamento non procederà dal basso.

 

 

Ma la quantità di energia e di attenzione che riserviamo alle nostre scelte di consumatori è sproporzionata, grottescamente eccessiva se messa in rapporto con l’attenzione che riserviamo alle nostre scelte politiche.

 

Nulla di strano, dopo tutto: da molto tempo ci siamo abituati ad essere dei clienti piuttosto che dei cittadini, a risolvere i problemi che ci affliggono al livello individuale:

 

il problema della casa con il mutuo, l’esaurimento e la paura del futuro con la terapia, la catastrofe climatica con il veganismo e la rinuncia alla plastica.

 

Nessuno reagisce con entusiasmo quando sente parlare della necessità di regolamenti statali imposti dall’alto.

 

E questo in particolare nella nostra parte del mondo, dove il sospetto nutrito nei confronti dei funzionari statali e la leggerezza con cui ci si attiene alle norme è addirittura iscritta nel DNA dei cittadini.

 

Ma in tutto il mondo – Polonia inclusa – vengono continuamente varate delle norme finalizzate al bene comune.

il divieto di fumo nei locali, l’obbligo della vaccinazione, la limitazione della velocità nei quartieri abitativi.

 

Allo stesso modo dovrebbe essere nostro interesse comune il divieto di impiego della plastica almeno in alcuni settori, l’alta tassazione del carburante aereo, l’abbandono dell’energia basata sul carbone;

non lo è certamente spendere milioni di euro per promuovere la carne polacca e il carbone polacco.

 

La posta non è più la sicurezza o la salute fisica o psichica di una parte della popolazione, ma la sopravvivenza del genere umano.

  Ideare e introdurre soluzioni finalizzate alla riduzione delle emissioni a livello globale richiede:

politici responsabili, conoscenze specialistiche, soluzioni innovative, solidarietà tra gli Stati ed enormi apporti di capitali finanziari.

 

Per quanto riguarda il livello individuale questo non ci renderà più ricchi e felici, anzi: è lecito aspettarsi che sarà proprio il contrario.

È sarà inoltre altamente probabile che i cambiamenti introdotti risulteranno insufficienti. Tuttavia – e qui sono d’accordo con Foer – non ci resta altro da fare che provarci.

 

  Nel suo libro Foer spiega ai lettori che il mondo necessita di cambiamenti a livello micro e a livello macro;

tuttavia su quest’ultimo non dovremmo fare troppo affidamento poiché “per quanto molte persone sottolineino in quale misura i cambiamenti climatici costituiscano un problema dello Stato e delle corporazioni, sembra che nessuno abbia idea di come influenzare la politica attuata dello Stato e dalle corporazioni”.

Sembra proprio che Foer abbia dimenticato che noi siamo non solo il clima ma anche lo Stato;

 

noi, i cittadini, abbiamo tutti gli strumenti per cambiare la realtà politica.

 

 

Possiamo scioperare, scendere in strada, far pressione sui parlamentari ma soprattutto possiamo votare.

 

Le elezioni sono infatti uno di quei rari momenti in cui la decisione individuali del proprietario di una fabbrica, di un ministro, di un lobbista del carbone, di un semplice cittadino hanno esattamente lo stesso peso.

DI EMILIA DLUZEWSKA

 

 

 

pubblicato su Repubblica 16 Luglio 2020


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