Beh, ci siamo arrivati all’abbattimento delle energie fossili e della CO2 nell’atmosfera che da anni vado predicando.
Ma le assicuro che avrei preferito di grandissima lunga che ci si arrivasse per altre vie”.
Trova un attimo di amara autoironia Jeremy Rifkin, il guru mondiale dell’economia applicata all’ecologia.
Puntualizza subito il suo pensiero:
“Spero che lei e la sua famiglia stiate bene.
Questa è un’immane tragedia che lascia sgomenti.
Quando sarà finita la carneficina faremo i conti con una crisi economica senza precedenti”.
Mentre parliamo con il professore, chiuso nella sua casa iperconnessa di Washington, le agenzie battono la previsione di Morgan Stanley per il Pil americano: -30% nel secondo trimestre.
Non solo nulla sarà come prima, ma non torneremo mai alla normalità, ha scritto il direttore dell’Mit Technology Review, Gideon Lichfield. Lei è d’accordo?
“Sicuramente sì.
Bisognerà studiare nuove modalità di comportamento, studio, lavoro, vita sociale, per mantenere sempre una distanza di sicurezza l’uno dall’altro.
Dovranno essere studiati di nuovo i teatri, gli stadi, i cinema, gli aerei, perché contengano meno gente e meno ammassata.
Io vado più in là.
Mentre la ricerca di vaccini prosegue serve uno screening globale.
I dati andranno depositati con qualche forma di tutela della privacy in una piattaforma blockchain a disposizione delle autorità internazionali.
Per ora dobbiamo rassegnarci:
il virus resterà fra di noi, e visto che non si potrà mantenere il lockdown in eterno per non piegare definitivamente l’economia mondiale, bisognerà aspettare qualche remissione per riaprire (parzialmente) le porte, rassegnandosi a richiuderle in fretta appena le terapie intensive degli ospedali segnalino un anomalo aumento degli accessi.
Ma la rivoluzione dovrà andare oltre, ridisegnando la governance mondiale”.
È la Waterloo della globalizzazione?
“Così come l’abbiamo conosciuta, è morta e sepolta.
Dobbiamo prendere confidenza con il termine glocal.
Io sono coinvolto in un progetto Ue propedeutico al Green deal della presidente Ursula von der Leyen:
le Bioregioni, aree anche sovranazionali con particolare omogeneità e vocazione industriale, agricola, culturale.
Stiamo delineandone i confini per valorizzare le attività, le produzioni, gli scambi all’interno.
Beninteso, visto che le tecnologie lo consentono, con il massimo delle connessioni con il resto del mondo.
L’area campione è la Hauts-de-France, la dorsale da Lione su fino a Dunquerque, una rust belt storica da destinare a uno sviluppo industriale più moderno.
Abbiamo già riscontri favorevoli in termini di investimenti.
Altre aree sono nei Paesi Bassi e in Lussemburgo .
In questi giorni ci stavamo concentrando sull’Italia.
A proposito: a me vengono in mente le affinità fra Lombardia e Svizzera, quali bioregioni individuerebbe lei, quale differenza c’è oltre al clima fra il nord e il sud?”
Nasce il nazionalismo ecologico?
“Le istituzioni politiche restano nella pienezza dei loro poteri.
Solo che vengono affiancate da un comitato di esperti che vivono nell’area, 300 persone fra accademici, sindacalisti, gente di cultura, studenti.
Ad essi vengono assegnati dieci mesi per fare proposte
La presidente von der Leyen stava per rendere pubblico il progetto quando siamo stati travolti dagli eventi.
Anche negli Stati Uniti c’è un piano analogo: qui le bioregioni sono cinque, dai grandi laghi del nord al deserto della California.
Abbiamo palesi difficoltà con la Casa Bianca ma lo spartiacque è stato varcato con l’elezione nel novembre 2018 di Alexandria Ocasio-Cortez, grintosa come solo i giovani sanno essere con un fortissimo seguito di opinione pubblica presso i suoi coetanei”.
Cogliere l’occasione di questa pausa tragica per ripensare il nostro modello di sviluppo?
“Nella storia, le trasformazioni epocali sono sempre state precedute da disastrose epidemie, compresa la rivoluzione industriale dell’inizio dell’800 e indietro nei secoli dei secoli.
Ogni volta si ripensa agli errori fatti.
Qui, non per ripetermi, l’errore, chiamiamolo così per non usare termini più apocalittici, si chiama cambiamento climatico.
Gli eventi estremi – incendi, alluvioni, maremoti, siccità, carestie – arrivano con cadenza pluriannuale anziché ogni cinquant’anni come un tempo.
E comportano sempre una fuga e una migrazione scomposta di uomini, animali e virus:
questi ultimi per sopravvivere si attaccano disperatamente agli altri esseri viventi. Così si diffondono nel mondo”.
Non dobbiamo più viaggiare?
“Parlo di fughe di massa.
Però, a pensarci:
lo sa con le teleconferenze quanto si risparmia in viaggi di lavoro, quanto inquinamento, stress, tempo sottratto alla famiglia?
Torniamo sempre al punto di base:
l’uomo deve diminuire lo spreco e il consumo di combustibili fossili.
Non sono così ingenuo da pensare che il cambiamento avvenga in tempi immediati ma gli orizzonti temporali cominciano a stringersi, diciamo che ci restano vent’anni”.
Non si rischia la decrescita?
“Non pensate a un impoverimento diffuso ma al contrario.
La svolta dei fondi pensione di prelevare centinaia di miliardi di dollari di investimenti dal settore dei combustibili fossili e industrie collegate per reinvestirli nell’economia verde, segna l’avvento dell’era del capitalismo sociale.
Ora abbiamo quest’amarissima occasione:
era meglio non averla ma cerchiamo di coglierla.
Tutte le rivoluzioni industriali sono state caratterizzate dalla disponibilità di mezzi di comunicazione, tecnologie e fonti di energia.
Se nell’800 c’era la stampa a caratteri mobili oggi abbiamo il web, e la stessa tecnologia ci dà mille risorse dall’Internet of things alla digitalizzazione delle fonti rinnovabili.
Nulla sarà più come prima, cerchiamo di far sì che sia migliore”.
Tratto da Repubblica del 29|03|2020