Insomma quello della plastica biodegradabile sembra essere l’ennesimo bluff atto a creare un business.
“Abbiamo bisogno di standard internazionali più chiari riguardo quello che definiamo come biodegradabile – ha spiegato il professor Richard Thompson, tra gli autori dello studio pubblicato sulla rivista specializzata Environmental Science and Technology e direttore presso l’International Marine Research Unit della Plymouth University – Intendiamo biodegradabile all’interno di uno stabilimento industriale che tratti i materiali a 50-60°C, con specifici livelli di pH, umidità e ossigeno?

O intendiamo qualcosa di esposto semplicemente all’azione del mare, della terra o di un fiume?

Secondo le stime degli studiosi inglesi, nella sola Unione europea vengono immesse ogni dal 2010 circa 100 miliardi di nuove buste in plastica.

Molti di questi prodotti vengono commercializzati come capaci di essere riciclati in natura più rapidamente della normale plastica o di essere alternative a base vegetale, ma la ricerca britannica sembra smentire tali affermazioni:

“Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentano nessun vantaggio consistente, rilevante e affidabile nel contesto dell’inquinamento marino – ha concluso il professor Thompson – Preoccupa, invece, che questi nuovi materiali possano rappresentare una ulteriore sfida nel processo di riciclo.

La nostra ricerca evidenzia la necessità di standard riguardo i materiali degradabili che esplicitino chiaramente i percorsi di smaltimento appropriati e i tassi di degrado prevedibili”.

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